Commento
Roberto Rordorf, Unità Operativa di Aritmologia ed Elettrofisiologia, Fondazione IRCCS Policlinico S.Matteo, Pavia).
L’argomento della controversia presentata sul New England Journal of Medicine è sicuramente tra i più attuali e dibattuti che interessano la comunità aritmologica, e cardiologica più in generale. Il punto chiave è se una strategia efficace di controllo del ritmo, ottenuta mediante l’ablazione trans-catetere, possa ridurre significativamente il rischio di ictus. Per quanto suggerita da diversi registri e studi osservazionali, tale efficacia non è stata confermata in trial randomizzati e controllati. In particolare lo studio CABANA1, per quanto non disegnato per rispondere a questo specifico quesito, non ha osservato una riduzione significativa del rischio di ictus nei pazienti trattati con ablazione rispetto a quelli trattati con terapia medica. I risultati dello studio OCEAN (Optimal Anti-Coagulation for Enhanced-Risk Patients Post-Catheter Ablation for Atrial Fibrillation), che prevede l’arruolamento di pazienti senza recidive aritmiche 12 mesi dopo ablazione e la randomizzazione a Rivaroxaban 15 mg vs ASA 75 160 mg (chissà perché non vs. placebo), servirà a dare luce sull’argomento7.
In attesa dei risultati degli studi in corso, le Linee Guida attuali raccomandano di basare la scelta sulla eventuale sospensione della terapia anticoagulante orale dopo ablazione sul profilo di rischio del paziente e non sul successo della procedura8. Nonostante le raccomandazioni delle Linee Guida, i registri internazionali indicano che circa ¼ dei pazienti a rischio moderato-alto sospendono l’anticoagulazione dopo una procedura efficace.
La strategia di utilizzo della terapia anticoagulante tipo “pill in the pocket”, proposta da alcuni Autori, non mi sembra convincente, sia per la necessità di un coinvolgimento attivo e consapevole del paziente, spesso non attuabile, sia per la chiara assenza di correlazione, dimostrata in studi di pazienti monitorati con pacemaker, tra il momento della recidiva aritmica e quello di un eventuale episodio ischemico cerebrale9. Più convincente, invece, mi sembra un approccio basato su una valutazione che contempli sia il profilo di rischio del paziente, sia il burden di recidive aritmiche. Dati ricavati da studi di monitoraggio continuo in pazienti portatori di pacemaker hanno dimostrato come pazienti con profilo di rischio molto alto (i.e. CHA2DS2-VASc ≥5) hanno un rischio di ictus alto, anche senza una documentazione di fibrillazione atriale. Al contrario, nei pazienti con rischio intermedio (i.e. CHA2DS2-VASc 2-3) il rischio è altamente influenzato dal burden di fibrillazione atriale10. Nel caso del paziente di cui si discute nella controversia, con profilo di rischio borderline in assenza di recidive aritmiche, sarei pertanto favorevole alla sospensione della terapia anticoagulante orale, raccomandando un attento monitoraggio del ritmo cardiaco.
Nella valutazione in merito all’eventuale sospensione della terapia anticoagulante orale dopo ablazione, altri due elementi andrebbero presi in considerazione, pur in assenza di attuali chiare evidenze scientifiche. Il primo è quello dell’utilità di una valutazione con imaging dell’atrio di sinistra (RMN cardiaca o ecocardiografia): l’assenza di un rimodellamento favorevole dell’atrio postablazione o la presenza di indici di contrattilità atriali, indicativi della presenza di una miopatia atriale sottostante, potrebbero aiutare nella scelta. Il secondo è quello del tipo di tecnica utilizzata nella procedura di ablazione: l’utilizzo di approcci più estensiv